Quello che ho scritto durante quest'anno, papà
Per te, e insieme a te
Paolo
Per te, e insieme a te
Paolo
31 maggio 2018, ore 18
1 giugno 2018
siamo Paolo e Giorgio, figli
nostro padre Vinicio è andato, nell'ordine naturale delle cose.
senza dolore, per lui almeno.
un grande albero ha chinato la chioma verso occidente
ciao Papà
2 giugno 2018
Papà Antonio se ne è andato un anno e mezzo fa, il giorno del derby Lazio-Roma 0-2: era laziale, e mio fratello ha scritto che non aveva voluto vedere l’amara disfatta.
Papà Vinicio se ne è andato giovedì, poche ore prima del giuramento del nuovo governo: era comunista, e Paolo suo figlio e mio adorato marito ha scritto che questo nero governo nasce con un suddito in meno.
Il cuore si strappa, ma si cerca di andare avanti, si trovano appigli: tragicomiche coincidenze, una lumaca sul balcone che protende le antenne alla luna, un campo di papaveri di una bellezza mai vista prima...
La verità è che non è mai il momento giusto, che non siamo mai pronti a dire addio, che chi muore lascia un vuoto inconsolabile negli occhi e nel cuore di chi resta, e che non c’è rimedio al dolore.
Addio Vinicio caro, ci mancherai tanto, a tutti. A Enrica più che a chiunque altro, coppia inseparabile e tenerissima, ci avete fatto vedere che l’amore che dura tutta la vita esiste ed è bellissimo, un modello per noi figli da seguire ogni giorno.
Grazie per questo e per mille altre dolcezze e simpatie.
Valentina
4 giugno 2018
VINICIO
Quello che dirò potrebbe dirlo indifferentemente mio fratello Giorgio.
E quello che dirò è funzione del fatto che è esistita ed esiste nostra madre Enrica, nella misura in cui se l'essere di un uomo non è dato un giorno e per sempre, ma viceversa si arricchisce dell'esperienza di ogni giorno fino all'ultimo, allora nessuna esperienza ha tanto determinato il divenire di Vinicio, nostro padre, quanto l'esperienza sessantennale del suo amore con Enrica.
Ci ha insegnato a leggere, Vinicio. E a comprendere nell'atto di leggere. E prima ci ha insegnato a parlare, ma a dire nell'atto di parlare. E ci ha insegnato a guardare, e a vedere guardando. E a sentire, ma ad ascoltare sentendo. E se torno ancora più indietro, probabilmente ci avrà insegnato perfino a pensare. Ma ad amare nell'atto di pensare, perché un pensiero o è anche un atto d'amore o non è nemmeno un pensiero.
Quindi ci ha insegnato a leggere; e ci ha insegnato a scrivere, e ad esprimere nello scrivere. E dunque ci ha insegnato a studiare, ci ha insegnato il piacere di studiare, il piacere di imparare.
Ma pure ci ha insegnato a giocare, a giocare ad ogni gioco; e a correre, a saltare, a nuotare, a pedalare, a cadere e rialzarci.
E ci ha insegnato a lavorare, a lavorare bene. Come ha lavorato bene lui, e tanto, nella e per la cosa pubblica. Di tutti.
Ci ha insegnato ad essere un certo tipo di cittadino; ad aver cura, delle persone, dei valori, delle cose che meritano se ne abbia cura. Ad aver cura in specie di chi non può averne di sé.
Ad avere opinioni, ci ha insegnato, non necessariamente le sue stesse, ma ad averne; e a confrontarle, a metterle in gioco, a cambiarle, a difenderle, a manifestarle; a partecipare, a prendere posizione, a parteggiare, a contribuire come possibile alla crescita collettiva.
Ci ha insegnato a tacere quando qualcuno ti parla, e a sforzarsi di capire, e solo poi ribattere.
Ci ha insegnato la bellezza, la cultura, la diversità, la vastità, la curiosità, l'intelligente rispetto, lo stupore. Le stelle e gli animali. Le montagne, gli alberi, il mare. Le città. Le forme e i numeri. I suoni e i colori. Sempre insieme alla mamma, beninteso.
L'attenzione, ci hanno insegnato. La speranza, la memoria. La cosciente presenza.
E l'empatia, come si dice; ma operosa.
Ci hanno insegnato un certo modo di essere persona; ma senza impartircelo, tantomeno imporcelo. Semplicemente essendo quel tipo di persona, che noi potevamo vedere semplicemente vivere, farcene un'idea e, volendo, aver di che emularlo. Oppure no, liberamente.
Non era autoritario, Vinicio, mai. Era autorevole. Era serio, con un'ironia irresistibile. Era timido, e sfacciato come i timidi naturali. Era giusto, ma mite.
Soprattutto, un uomo buono. Dolce, gentile, sollecito. Come un ragazzo, un ragazzo bravo.
Ci ha insegnato a pretendere, e ad attendere. A chiedere, e a concedere. A lottare, e a mediare. A volere, ci ha insegnato, che mica tutti sanno come si fa.
Sapeva sorridere, sapeva ridere, e far ridere. E sapeva piangere. Che mica tutti sanno che fa bene.
Sapeva voler bene. L'ha imparato ogni giorno della sua vita.
Ed era bello, nostro padre. Bello come Sean Connery. E nostra madre, bella come Juliette Binoche.
E voi dovete cercar d'immaginare un fotogramma impossibile, in cui un giovane Sean e una più giovane Juliette sono affacciati sul balcone della nostra casetta di un tempo, sotto un cielo luminoso eppure non luminoso quanto i loro volti, e guardano giocare un ragazzino e un bambino che ridono di nulla e incrociano gli sguardi con mamma e papà. L'immagine stessa della felicità. La perfezione.
Io ne ricordo tanti di fotogrammi così. Sono fortunato, tanto.
Ecco, Vinicio teneva per certo, o almeno ha maturato questa certezza da un bel momento in poi della sua esistenza, che di quella felicità istantanea non si deve essere nostalgici. Se ne deve esser grati, ma non nostalgici. Perché essa non è stata, bensì è. E', e basta. Sempre.
Invincibilmente, anche a dispetto della fine di una vita.
Che il dolore passa, ci ha insegnato, passa a fatica ma passa. Invece la gioia perfetta no, mai. Che se hai la sorte di sentir distintamente squillare la perfezione, il suo diapason non smetterà più di intonare il tuo cuore e la tua mente, per quanta consapevolezza delle sventure generali ed esperienza delle tue proprie tu abbia a seguire.
Ti nutrirà, ti conforterà, e sarà la base intatta del tuo essere mite e giusto e sollecito, e dolce e ironico e sorridente. Umano.
Ora capite che con un tale diamante dentro, l'uomo Vinicio aveva già soddisfatto una bella ambizione, una di quelle che la maggior parte di noi insegue invano tutta la vita. Ragion per cui ha messo sullo sfondo il perseguimento di ambizioni più materiali, che pure la vita concreta e sociale non gli ha negato, giustamente, e per le quali noi ci siamo felicitati con lui.
Ma la ricchezza era quella dentro. Chiaro.
Era ricco e accumulatore come un re, in questo senso. Ma generoso, di se stesso, come il giullare del re. Antico come la Stele di Rosetta, e moderno come gli excel delle sue classifiche comparate sul ciclismo o il sito web dei suoi racconti, l'hobby più recente.
Era profondo come un filosofo, e pazzo come il suo cane.
Non sarebbe dispiaciuto, secondo me, ai Maestri dei grandi sistemi di pensiero e narrazione dell'Umanità, e di miglioramento degli umani. Quei Maestri che ci additava, insieme agli Artisti, e ai Rivoluzionari, quali loro sì esempi da seguire, non certo se stesso. Maestro della propria smitizzazione, dell'understatement delle sue qualità, è sempre stato.
Non sono padre, ma credo che ogni padre inconfessatamente voglia essere, agli occhi dei figli, il più grande campione di ogni tempo. Lui no, ci sfidava con la sua cultura, ci invogliava con la sua curiosità a trovare biografie eccellenti rispetto alle quali inchinarsi, studiare e onorare, e sperare così che l'Umanità abbia dunque in sé non soltanto la ferinità e l'ottusità manifeste, ma pure qualche goccia di salvifico splendore. E contagiosa, magari.
Ci ha insegnato il coraggio. Tutta la vita, e anche morendo giovedì scorso, giorno 31, perché Ninetta bella crepare di maggio ce ne vuol tanto, troppo.
Poi però inaspettato un mare rosso di papaveri alle porte di Roma, si lascia guardare da te che soffri come un cane per la sua morte; e se vedi, nell'atto di guardare, così come ti è stato insegnato, sotto quel cielo luminoso, allora riesci perfino a sorridere. Allora senti una musica, se ascolti bene; magari di quelle che sa farsi uscire dalla testa mio fratello Giorgio.
Ballava da dio, papà, con mamma, suo amore. E cantava, con lei e noi. E giocava da dio, a carte; con i fratelli, i nipoti, gli amici.
E tante altre cose.
Tifava Roma.
E sognava anche lui l'umanesimo socialista, per il mondo intero.
Dunque ci ha insegnato a ringraziare, nostro padre Vinicio, così come nostra madre Enrica ci ha insegnato.
E allora io voglio ringraziare tutte e tutti quelli che sapendo che è morto son rimasti sgomenti, perché non se ne erano mai configurata la fine, che pure arriva per tutti, ed è arrivata senza dolore o terrore per lui; e benché addolorati, per amor suo e nostro, hanno proferito parola, fatto un gesto, stillato il pensiero anche muto, affinché tutto, pur in questo momento, rendesse omaggio alla vita bella di Vinicio.
E fosse balsamo alla nostra sofferenza.
Grazie.
Questo è per te, papà. Grazie.
Vai, ora. Coraggio.
Sei. Sempre.
Ora due dei suoi racconti brevi.
I SETTE NANI
Mio fratello Bruno e io siamo nati nel quartiere Prati e precisamente in via Cortellazzo, ora via Bu Meliana, a ridosso delle Mura Vaticane; io, infatti, sono stato battezzato in San Pietro.
Nel 1939 ci siamo trasferiti in via Cunfida (altra traversa di via della Giuliana) in un edificio dove già abitavano i nonni materni, Alberico e Pina, la sorella di mio nonno – zia Aurelia – la famiglia della sorella di mia madre, zia Iside, col marito Giovanni e tre figli, l'ultimo dei quali aveva la mia età, è stato mio compagno di giochi e stavamo in classe insieme alle elementari; purtroppo una grave malattia, non curata bene, se lo portò via a dodici anni – povero Tettè.
La nostra casa era formata da quattro stanze, una stanzetta (dove periodicamente dormivamo, o Bruno o io), bagno, cucina e un lungo corridoio, sede dei nostri giochi a palletta.
Oltre a mio padre Michele e mia madre Licia, la famiglia comprendeva mia nonna Lucia e otto figli, gli ultimi due nati proprio in questa casa.
Ai primi sette erano stati dati, come soprannomi, i nomi dei sette nani di Biancaneve, in base a presunte caratteristiche psico-fisiche.
Il primogenito Werther, laureatosi a 21 anni, ovviamente Dotto; Adriana, sempre polemica, Brontolo; Liliana, tendente ad ingrassare, nonostante tentativi di diete (beveva aceto!), Gongolo; Renata, calma, riflessiva e paziente, Pisolo; Bruno, esuberante e soggetto a fare almeno undici starnuti consecutivi, Eolo; Vinicio – io – piuttosto timido (sovente arrossivo, se osservato a lungo), Mammolo; Fulvio, il piccolino, Cucciolo.
Claudio, nato nel 1941, non ha potuto avere alcun appellativo: non ci sono altri nani, nella favola.
Con noi, all'epoca, c'era la donna di servizio, Antonietta, non molto bella, anzi, ma buonissima e affezionata soprattutto a noi più piccoli (copriva sempre le nostre birichinate). A volte, data la nostra numerosa famiglia, veniva a darle una mano la sorella Giulia, infermiera al manicomio, che aveva uno strano intercalare che inseriva in tutte le frasi “anchemacché”. Ogni tanto veniva a trovare Antonietta la madre Erminia, che aveva una pupilla bianca e che strillava sempre, per cui noi piccini la consideravamo una specie di strega.
In casa andavano e venivano a piacimento sette gatti, e c'era una scimmietta (ma ora ricordo di averla vista solo in fotografia). Mi raccontavano che la scimmietta maschio faceva la corte ad Antonietta (ritenendola della sua stessa specie?) alzandole la gonna e facendola strillare e correre per le stanze.
Allo scoppio della guerra oltre alla scimmietta sparirono sei gatti (i maligni dicevano che avevano fatto la fortuna degli affamati). Rimase solo un gatto, Nerino, che noi fratelli e sorelle ci litigavamo per aver vicino.
Purtroppo anche Antonietta andò via per curarsi da una grave malattia polmonare; l'abbiamo rivista anni dopo invecchiata, ma sempre affettuosa.
Quanto tempo è passato, e quanta nostalgia ricordando quella casa e i suoi magnifici abitanti!
Eppure ora non ci tornerei a vivere, anche se per un po' di tempo è stato il nido del mio matrimonio con Enrica.
aprile 2012
ENRICA
Da poco è passata la mezzanotte del 31 dicembre e siamo nel 1955! Tra circa una ventina di giorni diventerò maggiorenne e godrò dei benefici che mi darà l'età. Sono diplomato e iscritto al secondo anno di Giurisprudenza, e nel tempo libero gioco a carte o a ping pong.
Come gli anni precedenti ho partecipato al cenone in famiglia, aspettando i rintocchi delle 24 per brindare al nuovo anno con mio padre, mia madre e quasi tutti i fratelli e le sorelle.
Dopo una mezz'ora Bruno e io andiamo via per raggiungere i nostri amici e concludere la notte. Vado con passo spedito in via de Saint Bon dove abita l'amico che ha organizzato la festa; poche centinaia di metri, ma la strada è ingombra di cose gettate dalle finestre - incivili! - e c'è ancora qualcuno che fa scoppiare petardi, il che mi impone di aumentare il passo.
Finalmente giungo a destinazione; dopo gli auguri di rito, mi invitano a cercarmi un posto intorno al tavolo per giocare a Sette e Mezzo.
Mi siedo vicino a una ragazza molto carina, vista qualche volta in via Cunfida, che però non conosco. Ci presentiamo, si chiama Enrica, abita in via Premuda ed è sorella del mio amico Franco, là presente (e sorvegliante della stessa), fidanzato con Priscilla mia vicina di casa. Chiedo alla ragazza come va il gioco e lei mi confessa che sta perdendo; da cavaliere le propongo di giocare in società... mettendo lei i soldi e io il talento!
Al termine della nottata ci alziamo vincitori, e soddisfatti anche per aver instaurato una bella amicizia.
Nei mesi seguenti ci incontriamo più volte, sempre in gruppo: al cinema, alle feste in casa di Priscilla o in qualche negozio. Quell'estate con Franco, Tore e Fausto andiamo a Bracciano per un fine settimana, raggiungendo la famiglia di Priscilla e quella di Enrica.
Sulla spiaggia c'è anche un'altra bella ragazza che abita di fronte a casa mia, e che mi fa gli occhi dolci: perché non provare? La invito a fare un giretto in barca ma, ahimé, non riesco ad allontanarmi dalla riva, perché la barchetta ruota sempre intorno a un punto, forse per mie carenze marinare. Allora le chiedo di raggiungermi nella cabina, ma sul più bello ella si ritrae dicendo di essere ancora piccola. Insomma una frana; pur tuttavia vengo guardato quasi con disgusto dagli adulti presenti, in particolare dai parenti di Enrica.
La notte la trascorriamo, noi quattro amici, in una cabina non essendoci disponibilità negli alberghi abbordabili. Una tragedia a causa della scomodità, e della paura di qualcuno; conclusione: non si dorme, e l'indomani con le ossa rotte risultiamo di poca compagnia.
Un fine settimana imbarazzante!
Nei mesi successivi riesco a parlare più confidenzialmente con Enrica, sedicenne, ogni giorno più carina e con un seno da fare invidia alle dive alla moda!
Comincio a guardarla con sempre maggiore interesse, cercando di incontrarla sempre più spesso e ciò mette sull'avviso il marito di sua sorella Maria, che mi ferma in strada per dirmi, a brutto muso, di stare lontano dalla cognatina, altrimenti...
Naturalmente non do ascolto alla minaccia e, approfittando di un incontro casuale, le confesso che sono innamorato di lei e che, se lei è d'accordo, parlerò con i suoi genitori!
Preciso che fino a quel momento ci eravamo solamente tenute le mani o al massimo un po' abbracciati durante i balli.
La mia proposta venne da lei entusiasticamente accettata!
Il 30 marzo 1956 mi recai a casa di Enrica e presentai ai suoi genitori la mia 'candidatura'; loro, persone squisite ma giustamente perplesse - non solo per la giovane età della figlia ma anche perché ero uno studente con relative poche entrate per lavori saltuari -, tuttavia ci diedero il permesso di frequentarci, sempre sotto sorveglianza!
Quasi cinque anni è durato il nostro fidanzamento, dopodiché ci siamo sposati e insieme abbiamo iniziato il cammino nella vita, che felicemente e fortunatamente dura ancora.
luglio 2011
10 giugno 2018
De André. Stavolta non è Faber, ma una scuola. Roma, Monteverde. Mio fratello ci insegna lettere da anni, e fa laboratorio musicale. Con la collaborazione di dirigenza e personale tutto. E il risultato sono generazioni di ragazzi che mi onorerei di avere per figli.
Anche quest'anno ci hanno fatto affacciare, noi vecchi cittadini altrimenti sfiduciati, sui loro cuori, sulle loro menti e sul loro talento. Ed è stata aria pura, come sempre, ed energia.
In più una dedica del tutto inaspettata, un dono, un medicamento per l'anima nostra di questi giorni indicibilmente duri.
Grazie ragazzi, grazie istituto, grazie genitori.
Grazie, Giorgio. Quanti semi pianti, quanti frutti condividi con noi.
What's Up (4 Non Blondes) Ex-SuperGulp
26 giugno 2018
NELL’ANNO DEL SIGNORE
Questo gran film lo vidi la prima volta proprio da piccolo. E poi un'infinità di altre volte.
Quella prima volta, e mi sa pure le dieci successive, l'ho visto ovviamente con i miei. E dopo ancora da solo, o con gli amici, o con gli amori.
Mio padre me lo fece intendere bene. Battuta per battuta, e si rideva tanto. E sequenza per sequenza; e si pensava, ci si emozionava, si capiva, si parteggiava. Tutti e quattro noi, con mia madre e mio fratello, insieme.
Poi passavamo per piazza del Popolo e ci indicava l'iscrizione alla memoria di Targhini e Montanari. E io, in seguito, altrettanto ho fatto con gli amici, gli amori.
Alla lotta. Alla libertà. Alla giustizia.
Questo è alla tua memoria, papà.
28 giugno 2018
BUEN VIVÌR
Ho il ricordo lontano, ma nitido, colorato, sonoro, dei suoi colpi di tacco. Anche.
Inutili quasi quanto i miei, di una vita e ancora.
Plettri lanciati dal palco.
Lui, il primo falso nueve del pallone amatoriale. Un po' suo malgrado.
Vinicius de Andreoes!
31 luglio 2018
TUTTO PIÙ CHIARO CHE QUI
Due mesi esatti oggi, che non c'è più.
Che non c'è. E però è.
Però però...
Allora, rileggere le sue parole. Come queste così belle, così vere.
Misura del resto. Saggio dell'ora.
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LA GUERRA
Quando a dieci anni ti trovi inconsapevolmente nel bel mezzo di una guerra, per tutta la vita ti porti dentro i "filmati" di quello che hai visto e sopportato, soprattutto dei suoi aspetti peggiori.
A me la sorte ha riservato la partecipazione, ovviamente non come protagonista – avevo appunto dieci anni –, alle fasi più dure della Seconda Guerra Mondiale in Italia.
Nel 1944 mi trovavo con tutta la mia grande famiglia nella bella cittadina di Vittorio Veneto, in una casa a ridosso del monte Augusta di proprietà di due anziane e simpatiche sorelle. Eravamo lì, da Roma, per motivi di lavoro di mio padre; ed eravamo una piccola tribù: mio padre, mia madre, mia nonna paterna e complessivamente sette figli me compreso. Ma la permanenza a Vittorio Veneto, ancora abbastanza piacevole se paragonata al contesto, purtroppo fu breve.
Lì frequentai la Quarta Elementare e sostenni l'Esame di Stato per il passaggio diretto alle Medie al fine di avvantaggiarmi negli studi. Tentativo vano però perché, proprio per la guerra, dopo non potei più andare a scuola fino al suo termine.
L’istituto elementare a Vittorio Veneto, la Dante Alighieri, si trovava a qualche chilometro da casa, e vi venivo accompagnato da una mia sorella più grande. Prendevamo un bus che tra noi avevamo ribattezzato 'Carolina'.
La nostra casa era circondata da un vasto orto e da campi seminati a grano. Io e i miei fratelli più piccoli ci divertivamo a scendere nell'aia, dove giravano vari animali: galline, oche, conigli e tacchini (mai visti prima d’allora).
Tutto questo finì quando mio padre venne richiamato in servizio militare (era arrivato al grado di capitano dei Bersaglieri, prima della guerra ovviamente, lui classe 1891) per essere assegnato agli uffici amministrativi del Corpo d'Armata di Verona.
In quella città abitava la sorella di mia madre, col marito e i loro quattro figli. Gli zii ci ospitarono, avendo una casa grande in una via vicino alla celebre Arena (che però in quel periodo era chiusa).
Inizialmente mi trovai bene per la presenza di mio cugino, stessa mia età, con il quale giocavo in tutti i momenti liberi.
La città era (ed è) molto bella, piena di monumenti splendidi: oltre l'Arena, il Castello Scaligero, la Casa di Giulietta, Piazza delle Erbe...; ma non potei godere della loro bellezza, ovviamente, perché iniziarono ad intensificarsi i bombardamenti degli Alleati così da fiaccare le recrudescenze dei nazifascisti.
Ma come succede da sempre, chi ci va per le peste è la cittadinanza inerme. La nostra casa fu colpita dalle bombe, e noi rimanemmo senza un tetto.
Andò così.
Come già accaduto in passato, al suono delle sirene d'allarme scappammo nel rifugio che si trovava a poche centinaia di metri da casa. Si sentivano gli scoppi delle bombe sempre più vicini, anche da lì sotto, e io ascoltavo la discussione fra mia madre e mia nonna: che quest'ultima aveva chiuso i vetri delle finestre, i quali perciò si sarebbero potuti infrangere per lo spostamento d'aria se le bombe fossero cadute abbastanza vicine. Mio fratello quindicenne e una mia sorella si trovavano all'entrata del rifugio, e giusto allora scesero per dirci che un gran polverone proveniva dalla nostra via; la discussione di cui sopra si accalorò vieppiù. Quando finalmente cessò l'allarme uscimmo fuori, e andammo tutti verso casa. Ma non c’era più. Osservavamo, con un dolore che non so dire, le macerie che restavano: e penzolare nel vuoto reti di letti, sedie, tendaggi e altri arredi.
Poche cose riuscimmo a recuperare. Io per esempio, grazie a mio fratello che si arrampicò su quei resti, salvai una valigetta contenente le mie figurine di ciclisti e di calciatori.
Furono giorni tremendi. Ci sistemarono in una caserma, su brandine militari; tutti insieme, grandi e piccoli, maschi e femmine, senza intimità né alcunché di nostro, cibandoci del rancio dei soldati. E sempre con la preoccupazione che anche e soprattutto la caserma potesse essere bombardata.
Poi mio padre riuscì ad ottenere per noi un appartamento presso il Corpo d'Armata, e gli zii un altro vicino alla Cattedrale di S. Zeno.
Di quel nuovo periodo ricordo in particolare le fughe per i bombardamenti verso una grotta a mezzo chilometro da casa. Ognuno aveva un incarico, io quello di portare uno zainetto con i pochi oggetti preziosi rimastici.
Un giorno, mentre andavamo al rifugio, un aereo si abbassò e cominciò a mitragliare la folla. Tutti di corsa verso la grotta, io attaccato a mia madre e gli altri più giovani avanti, con mia nonna che non riusciva a correre e si riparò in un portone. Per fortuna dopo l’attacco arrivammo in rifugio sani e salvi tutti quanti. Ma quanta paura, e che impressione vedere i feriti in terra!
Penso ora che proprio quelle circostanze, più del resto, abbiano determinato il mio odio per le armi, per la guerra, per chi la provoca e per i motivi che inducono i cosiddetti Potenti a combattere.
Poi, aprile 1945, arrivò la Liberazione.
Finita la guerra ci stabilimmo di nuovo insieme agli zii in un appartamento vicino a Piazza Bra. C'era poco da mangiare, le scuole chiuse; lavoro poco, poco soprattutto per le donne. I monumenti di Verona non avevano subito danni ingenti; salvo i ponti, che i tedeschi fuggendo fecero saltare.
In quei mesi io e mio cugino giocavamo spesso in strada con altri ragazzini, tra le macerie, guardati male dagli adulti affamati e da coloro che non avevano altro lavoro che quello di ripulire le strade.
Una volta io e mio cugino ci attaccammo a un carretto tirato da un cavallo per fare un po’ di strada, ma lui cadde e così tornammo indietro. Sembrava cosa da poco, ma da allora iniziò a zoppicare e le sue condizioni si aggravarono al punto che senza un motivo valido, per quel che io potevo saperne allora, mio cugino di lì a poco morì. Aveva dodici anni. E fu per un tumore non diagnosticato.
Dopo tornammo a Roma, finalmente. Mi sembrava un sogno non sentire più le sirene d'allarme, non scappare nei rifugi, non mangiare scatolette e poco altro, non vedere solo macerie e morti e feriti.
La vita riprese, ma quei due anni mi hanno lasciato segni e turbamenti, impressioni che ancora da grande permangono.
In qualche modo tutto passò.
Ma chi non ha vissuto durante una guerra non può capire cosa significhi, e quali sacrifici e dolori debba un essere umano sopportare.
Ormai sono anziano, e la vita mi ha dato tante gioie e soddisfazioni. Eppure i ricordi di quel funesto periodo tornano ancora alla mente, e non sono affatto piacevoli.
Mi auguro di tutto cuore che le nuove generazioni non debbano mai vedere ciò che i miei occhi di fanciullo hanno visto.
pubblicato su L'Indro
rivista on-line di politica e cultura
del 15.XII.2015
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Parole-anima.
Grazie!
Però che dono sarebbe se ce ne fossero di nuove, inaudite ancora, pensate dalla sua mente dopo il 31 maggio e pronunciate dalla sua viva voce, calma, mentre ti guarda con gli occhi vispi e buoni.
Pomperebbero qui tra noi altra aria, altro sangue. Farebbero altra luce, e quanta ne serve!
Va bene, non si può.
Lo accettiamo.
Da due mesi esatti, oggi.
Grati, comunque e sempre.
10 agosto 2018
SCALE
Ano Koufonissi (isoletta abitata della coppia Koufonissia; l'altra è Kato, disabitata), Piccole Cicladi, è molto rispettosa dell'ambiente e della Natura.
Per ridurre al minimo l'inquinamento dell'aria e i rumori non si affittano macchine, moto o motorini, ma solo biciclette. I tanti gatti e gattini liberi sono benvoluti da tutti, e nutriti, e perfino i ristoratori se un micio si spinge a salire sulla tavola con gli avanzi ancora da sparecchiare, lo dissuadono con garbo. E i locali e localini in riva al mare la sera usano più candele che luce elettrica per impattare meno possibile con la volta celeste, qui davvero straordinaria.
Grazie a questo, qualche sera fa, ho potuto gustare chiaramente le tre diverse scale di grandezza dello Spazio in cui è immersa la Terra.
La prima, quella del Sistema Solare. C'era un arco perfetto da sud-est a sud-ovest, con le estremità basse sull'orizzonte e la campata alta al centro quarantacinque gradi, su cui si allineavano Marte, Saturno, Giove e Venere, brillantissimi e variamente colorati. La linea curva che li univa è il Piano dell'Eclittica, lo stesso su cui gira la Terra intorno al Sole, e non lo avevo mai capito altrettanto bene. Eravamo, quei quattro pianeti più il nostro come quinto, una sola danza un po' alla Matisse, un cerchio di punti-luce largo qualche miliardo di chilometri, il completamento dell'arcobaleno ma fatto di notte e di pietre preziose, una fratellanza tra Mondi! (Vi figurate qualcosa di più inattuale?)
La seconda scala di grandezza: quella delle stelle più vicine, quelle che vediamo a occhio nudo, che l'Uomo guarda dall'inizio della Storia, cui ha dato un nome, caratteri, poteri, che ha congiunto di fantasia nelle note costellazioni, che ha interrogato sul proprio destino fino agli albori della Scienza; la seconda scala era la trapunta di gemme a centinaia, grandi e piccole, più o meno tremule, come non osservavo da anni.
Sono sei o settemila in tutto, le stelle visibili così, e non dico che fossero tutte sopra la mia testa quella sera, ma certo un bel po'! E così spingevo lo sguardo fino a molte centinaia di anni-luce da qui. Col cuore leggero di gratitudine.
E la terza era la maestosità della Galassia. Tagliava il cielo in verticale la sfarinata di brillanti tenui, la scia del Tempo profondo e delle distanze impensabili che l'Uomo dall'inizio della Civiltà chiama Via Lattea. Sono trecento miliardi di stelle che ruotano insieme, secondo un ordine mirabile, in un disco a spirale che è largo centomila anni-luce, un miliardo di miliardi di chilometri! E pioveva dal cielo l'altra sera, quella traccia di eoni, su Koufonissi per gli occhi spalancati di tutti che eravamo lì, resi atomi identici dall'infinitesima scala nostra di umani e tanto più consonanti nella stessa gioia spaurita dinanzi all'immenso sublime.
Quindi: la Via Lattea al centro della notte, sullo sfondo; in secondo piano le stelle vicine, la nostra piccola regione di spaziotempo; e sul proscenio i quattro pianeti, il cortile di casa.
Dietro le quinte, più lontana e del tutto insondabile, la quarta scala di grandezza: l'Universo delle centinaia di miliardi di galassie come la nostra, invisibile a occhio nudo perfino in una sera così.
Ma diciamo che ci si poteva accontentare!
Ho guardato chi era accanto a me, il suo volto, i suoi occhi. E ho guardato col cuore anche chi non era lì, ma conta talmente.
E ho pensato chi non c'era, e non potrà più esserci.
Col dolore mescolato all'Infinito.
Un gattino mi ha sfiorato la gamba, soffice e caldo, mai troppo sazio.
Era alla giusta scala della vita.
31 ottobre 2018
LA PARTITA DEL SECOLO
All'inizio degli Anni Ottanta un avvenimento sportivo suscitò l'interesse generale dei cittadini della capitale. Difatti a qualcuno venne in mente di organizzare una partita a pallone fra la famiglia Andreozzi contro la famiglia Calderigi, imparentati per via del matrimonio di Vinicio con Enrica.
Lunghe le trattative intese a stabilire se dovessero essere considerati appartenenti gli affini, i derivati, quanti oriundi, e poi le modalità del gioco, la data, il campo, l'arbitraggio, la pubblicità e così via.
Finalmente in un imprecisato giorno del mese di giugno dell'anno 1981, sul campo di Valle Aurelia la disfida ebbe luogo.
Lo stadio colmo di un pubblico eccezionale, con tifo alle stelle; l'unica che si trovava a disagio mia moglie che essendo una Calderigi ed avendo in campo fra gli Andreozzi marito e figlio non sapeva per chi parteggiare, facendo opera di mediazione sugli spalti. Naturalmente vennero predisposti i servizi essenziali di assistenza e pronto intervento, anzi di sopravvivenza, data l'età media dei contendenti. Motivo, esagerando, di nominarla partita 'del secolo' dai contendenti stessi.
Al fischio dell'arbitro imparziale (nonostante i tentativi di corruzione da ambo le parti) un boato del pubblico accompagnò il calcio di inizio e lo scontro (parola quanto mai esatta) fra i contendenti rubò l'attenzione dei presenti.
Gli Andreozzi presentarono una difesa 'di peso' formata: in porta l'oriundo Paduano, quindi Fulvio, Bruno, Paolo Pergola e Massimiliano (amico di sempre di Paolo), quasi imperforabile, ben sostenuta da un centrocampo dai piedi buoni e dal gran fiato, così composto: Paolo, Franco Colazingari e Claudio Serafini. Purtoppo l'attacco non aveva lo stesso spessore, nonostante l'impegno di Alessandro Pergola a sinistra; a destra l'apporto di Roberto Aloisio fu pressoché inconsistente in fase realizzativa, ma soprattutto il capitano Vinicio, che doveva agire come centravanti boa, si rivelò avulso dal gioco, continuando a parlare e discutere con avversari e pubblico.
Di contro i Calderigi presentarono una formazione più compatta e tatticamente meglio disposta in ogni reparto. Il portiere Giancarlo - che mai aveva giocato a pallone - risultò determinante per il sostegno alla squadra con la voce e gli atteggiamenti istrionici e d'effetto. In difesa Attilio, Stefano, Ario e un altro, formarono una diga insormontabile; il centrocampo, costituito da Franco, Adolfo e Riccardo sosteneva al meglio la difesa rilanciando gli attaccanti Marco e Mauro molto veloci e incisivi. Nota stonata Lorenzo che faceva da contraltare a Vinicio.
Il primo tempo finì 1 a 1 e il punteggio fu sostanzialmente veritiero. Il tracollo degli Andreozzi avvenne nella ripresa dopo l'uscita dal campo di Paolo e di Fulvio e l'ingresso di un evanescente Vincenzo e di un inutile Maurizio. La partita finì 4 a 1 per i Calderigi, portati in trionfo dai propri fans. Naturalmente le discussioni non finirono lì, e partì subito il progetto di ripetere il duello.
Purtroppo non si riuscì ad organizzare un'altra partita, ed ora appare improponibile: fra gli Andreozzi, tranne un paio, i vecchi giocatori hanno superato i 60, 70 e 80 anni, e i Calderigi non stanno molto meglio.
Pazienza! Resta il fatto che un giorno di 30 anni fa, due famiglie si sono incontrate per trascorrere con gioia alcune ore insieme, e per me è stato un fatto importante aver coinvolto tante persone in un evento... pseudosportivo.
febbraio 2011
30 novembre 2018
SPIZZICHINO
Come è noto lo spizzichino è un gioco di carte derivato dal tressette, del quale mantiene le regole, che vede impegnati due contendenti tesi a vincere la partita raggiungendo 21 punti positivi. Inizialmente vengono servite dieci carte a testa mentre le altre venti costituiscono il tallone da cui i giocatori prelevano una carta per ogni mano giocata.
A questo punto basta con l'illustrazione del gioco, perché non necessario ai fini del mio raccontino.
Fin da ragazzo mi è sempre piaciuto giocare a spizzichino e ritengo, a ragione, di essere particolarmente bravo sia perché riesco a ricordare le carte, sia anche per l'attenzione con la quale seguo la partita, osservando altresì le mosse dell'avversario.
Fra tutti quelli incontrati, solo uno è stato alla mia altezza, anzi, ora lo posso dichiarare, mi era superiore: di poco, ma era più bravo. Era uno dei nipoti di mia moglie Enrica, Giancarlo.
Quante partite abbiamo fatto? Tante, un'infinità; ogni volta che si poteva ci appartavamo per scontrarci, cavallerescamente. Ricordo che durante una festa a casa di parenti Giancarlo mi chiama, tira fuori dalla tasca un mazzo di carte e ci mettiamo credo su un frigorifero a giocare, subendo poi i lazzi da parte di quelli che ci avevano scoperti!
Spesso ci vedevamo la sera a casa e segnavamo su un diario i risultati delle partite; quante ne abbiamo fatte? Più di tremila, forse. Le ultime l'abbiamo fatte a casa sua e di Rosanna sua moglie, a Vallerano; finimmo in parità di vittorie, ripromettendoci di vederci per stabilire finalmente una supremazia.
Purtroppo non ne abbiamo avuto la possibilità, la malattia ha interrotto la sua meravigliosa vita.
Nessun altro poteva dirsi alla nostra altezza. E più nessuno sarà bravo come lui.
Da allora non ho più giocato a spizzichino, e mi illudo che Giancarlo, ovunque sia, abbia trovato competitori della sua stoffa. E chissà che un domani non possiamo rincontrarci intorno ad un tavolo, per riprendere le nostre partite.
Grazie Giancarlo!
aprile 2016
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Buone sfide, ora, ragazzi per sempre!
12 dicembre 2018
MEZZO SECOLO E SEMBRA IERI
In Italia la prima del film fu il 12 dicembre del 1968.
A Roma tra le altre sale toccò all'Adriano, che non era la multisala di adesso con ingressi e uscite su piazza Cavour e via Cicerone, ma era stato già frazionato sul corpo del Politeama Adriano di fine '800 da Giovanni Amati, vero patron della proiezione a Roma, in due sole sale: l'Adriano, appunto, grande ambiente classico con platea, palchi, galleria, su piazza Cavour, e il più piccolo ma elegante Ariston su via Cicerone.
…Tra parentesi, nel '65, il 27 e il 28 giugno, l'Adriano ospitò l'unico passaggio della storia dei Beatles a Roma (momento di raccoglimento), ma di regola funzionava come cinema e basta.
Ecco, io non posso affermare con certezza se vidi 2001 già a fine '68, o invece l'anno dopo, magari in seconda visione. Sapete, i biglietti di prima venivano una cosa come 1000/1200 lirette… Comunque di certo ero molto piccolo, e sicuramente lo vidi con mio padre Vinicio e suo fratello Fulvio, uno dei molti fratelli e sorelle Andreozzi: zio Fulvio, l'unico ad attitudine scientifica di tutta quella generazione della famiglia. Papà se l'era portato per una spiegazione d'emergenza a fine film, però ammetto che seppure lui ce l'abbia fornita io non me la ricordo.
Ma il film mi piacque da pazzi!
Infatti, mi piacque tanto che poi 2001 l'ho visto e rivisto infinite altre volte: cinema, rassegne, festival, arene, anche in televisione, quando lo davano, e dopo quando uscirono i vhs, ancora, in videocassetta, e poi ancora in dvd, e poi ancora dei pezzi scelti su Youtube... Sapete: tipo il film della vita! E non solo da vedere e rivedere: letture specifiche, seminari, conferenze, e confronti con altri cinematti, e documentari, e interviste, e gossip, e trivia, e sondaggi, e… disegni! Sì, a scuola, quando c'era da fare il disegno tecnico, con lo studio delle ombre, proprie e portate, io un monòlito, o monolite, proporzioni standard, riuscivo sempre a infilarcelo: praticamente un'ossessione!
Lungo tutto questo mezzo secolo mi ricordo, per esempio, che nel foyer del cinema Clodio, che non c'è più, ci fu una proiezione/dibattito tra le più scomode, tipico fine Anni '70, io quindicenne accroccato su una sediaccia e Roberta, fidanzatina mia, su un bracciolo per tutte le oltre due ore del film!
Poi, notevole, anche una visione in solitaria (tipo le ascese di Messner sugli 8000), una sera di 24 dicembre a casa, facendomi gli auguri di Natale tra me e me (avevo resistito miracolosamente all'invito dei miei, correva l'anno 2000) con cenetta corredata da Brunello; dovevo coccolarmi forse, anzi evidentemente (che con Roberta, poi diventata compagna di vita, ci eravamo appena separati).
Finché, ed è questa la notizia vera, ho visto 2001 ancora una volta, ed tuttora l'ultima volta in sala, esattamente il 19 dicembre 2004, con Valentina, compagna non ancora moglie (compagna e moglie è tuttora). Ed è stato allora, solo allora, che (oso dirlo) ho capito "2001: ODISSEA NELLO SPAZIO"! Tutto: per filo e per segno!
E oggi, a cinquant’anni esatti dalla prima italiana (l’anteprima mondiale fu martedì 2 aprile 1968, a Washington DC, nella sala dell’UpTown Theatre), proverò a convincervi della fondatezza della mia intuizione.
Stavamo alla Sala Trevi, Valentina e io, che è quel piccolo spazio di proiezione e rappresentanza del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, con un ritrovamento archeologico nel sottopiano... no, non è la nuova Rinascente di via del Tritone, però tipo.
E l’intuizione fu suggerita da una striscia di appena pochi fotogrammi, e poi mi scattò in testa un domino di deduzioni e inferenze logiche. La brevissima sequenza è solo una penna che galleggia in un modulo di trasferimento interplanetario mentre il dottor Floyd dorme... Ma che volete? Si vede che era il momento giusto, dopo decenni, dopo chilometri di pellicola vista e rivista, dopo metri di spessore di pagine lette, dopo tutto quel sentirne parlare e discuterne e pensarci e ripensarci, era il momento giusto perché tutti i circuiti si attivassero insieme, e tutti i tasselli andassero al posto loro, clac clac clic clac clic clac clic clic...
E niente: in quel momento ho messo insieme cose che mi sono parecchio naturali: la scrittura, il congetturare… e mi sono detto: "Ma qui qualcuno sta scopando!"
...SBEM! In un attimo tutto il film, che sapevo a memoria, si è squadernato come un abbecedario di lettura elementare! Devo aver detto ad alta voce una cosa come "Cazzo, sì!", Valentina si è girata verso di me e mi ha detto, piano, "Sei trasfigurato! Che c'è?", in quattro parole, sussurrando, le ho accennato la chiave, lei ha capito subito e ha detto forte "Cazzo, ma sì!".
Poi ho rivisto 2001, per intero, filato, ancora una sola volta, a casa, in dvd, nel maggio 2011. Per controllare se dopo sette anni dalla sera del disvelamento, quella chiave aprisse ancora tutte le porte. Le apriva!
Allora mi sono dato appuntamento al 2018, per i cinquant'anni dall'uscita del film. Per aprire l'archivio segreto, tipo documenti sull'omicidio di Kennedy, per aprirlo in pubblico, cioè: insieme a voi!
Ed eccoci qui, è scoccata l’ora!
...Stanley carissimo, adesso cinquant'anni sono passati, anche loro devono sapere!
30 dicembre 2018
DITTICO
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LE NOZZE D'ORO
Non a tutti, purtroppo, è data la possibilità di celebrare e festeggiare le Nozze d'Oro. A noi è stato, fortunatamente, concesso tale privilegio: raggiungere cinquant’anni di felice matrimonio.
A pochi mesi dalla fatidica data con mia moglie Enrica abbiamo concordato di fare le cose in grande (forse è troppo grossa la parola), comunque una festa che sarebbe rimasta nella nostra mente e di chi ci vuole bene.
Ciò per recuperare quello che, per vari motivi, non potemmo realizzare quando ci siamo sposati.
Ma quanti impegni! Gli inviti a parenti e amici, i confetti con bomboniere, il locale ove festeggiare l'avvenimento, gli abiti da indossare, la chiesa ove celebrare il cinquantennale...
Per prima cosa decidemmo di scegliere l'orario serale per la funzione, per dar modo a chi lavorava di essere presente. Primo intoppo: la chiesa in cui ci sposammo nel 1961 era indisponibile di sera. Allora ci siamo rivolti alla parrocchia della nostra zona. Perfetto! Ci siamo accordati sull'orario, fiori, musica e poi con il sacerdote (per il fatto che io non riconosco alcuna religione).
Quindi abbiamo redatto gli inviti e ordinato confetti e bomboniere. Poi abbiamo scelto il locale ove riunirci dopo la cerimonia, per la cena, già conosciuto per esserci stati più volte in occasione delle festività natalizie.
Infine: cosa metterci addosso essendo il 30 dicembre? Quante cose! Ma tutte fatte e risolte con piacere.
D'altro canto cinquant’anni prima fummo ben poco impegnati, soprattutto io che stavo a Bolzano a servire la patria.
Ma ecco il 30 dicembre 2011, e tutto è pronto. Con figli e nuore siamo entrati in chiesa, poi noi soli fino all'altare tra un’ala di parenti e amici al suono di una musica per noi speciale. La cerimonia è stata toccante e noi molto emozionati, il sacerdote francese è stato bravo e tutto ci è stato di gradimento.
Il ristorante poi era aperto solo per noi, la sistemazione dei posti degli invitati è stata ben curata da nostro figlio Paolo e la cena ottima. Tutti felici di augurare a noi vecchi altre feste analoghe. Al termine della cena nostro figlio Giorgio si è messo al pianoforte e quindi tutti a cantare, e non solo canzoni “antiche”.
Tutto bello, ma soprattutto il regalo ricevuto a sorpresa dai nostri figli e nuore: tre giorni a Napoli, città dove andammo appunto cinquant’anni fa!
Abbiamo trascorso questa seconda luna di miele benissimo, salutando l'anno vecchio e iniziando il 2012 nel migliore dei modi.
Cosa di più?
Evviva!
settembre 2012
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CINQUANTA ANNI
"Nel mezzo del cammin di nostra vita": scriveva a trentacinque anni padre Dante ritenendo settanta anni la durata media dell'esistenza. Ora che, per fortuna, la vita si è allungata dovrei scrivere che cinquanta è il mezzo del cammin...
Ma no! Non volevo plagiare il Divino Poeta, volevo solo magnificare i miei, i nostri cinquant'anni di matrimonio, le fatidiche Nozze d'Oro.
Come più volte ricordato ho conosciuto Enrica, mia moglie, il primo gennaio 1955, per cui ad oggi abbiamo festeggiato insieme cinquantasette capodanni e analogamente i cinquantasette compleanni di entrambi.
Ci siamo sposati il 30 dicembre 1961 e la nostra luna di miele è durata solo tre notti, dovendo io ripartire per il servizio militare già il 2 gennaio. Dopo altri cento giorni però sono tornato e finalmente ci siamo uniti per sempre!
Dopo venticinque mesi nasce Paolo, primo figlio, e a dieci anni dal matrimonio Giorgio, secondogenito.
Continuo l'inventario, mi ha preso la mano!
Abbiamo risieduto in quattro abitazioni diverse ma sempre a Roma. Peraltro abbiamo finora visitato e conosciuto circa trecentocinquanta comuni italiani e dieci nazioni straniere. Abbiamo avuto una decina di autovetture (non tutte insieme!) con le quali abbiamo percorso in lungo e largo l'Italia per oltre 600/700 mila chilometri.
Molto spesso abbiamo usato il treno; ci siamo arrivati ad Amsterdam, una volta. I nostri maggiori viaggi li abbiamo però fatti in pullman: partendo da Roma siamo arrivati in Andalusia e ancora nell'Europa centro-occidentale, e poi il tour della Toscana/Umbria e il giro della Sicilia. Abbiamo visitato, sempre in pullman, la Tunisia e la Turchia.
Con l'aereo abbiamo volato dodici volte, abbiamo fatto una crociera nel Mediterraneo, una sul Danubio ed una breve sul Reno. Molti traghetti presi per Sardegna, Elba, Capri, Ischia. Centinaia di alberghi ci hanno ospitato, senza numero i ristoranti, le trattorie, le pizzerie; centinaia gli spettacoli teatrali visti, i concerti, mentre impossibile numerare i film, i musei, le mostre, i siti archeologici ecc.
Ma insomma non era di questo che volevo scrivere!
Volevo parlare della bellezza del nostro rapporto matrimoniale. Mi è scappata la mano nell'evidenziare una lunga e noiosa serie di numeri, scusate.
Va bene, sono stati anni magnifici grazie alla famiglia e a mia moglie, fantastica, che forse amo anche più di prima.
Può essere?!? Ormai l'ho scritto!!!
febbraio 2012
23 gennaio 2019
VIA CUNFIDA
In via Cunfida al quartiere Trionfale, Roma, ho vissuto dall'età di cinque anni fino ai ventinove, quando sposo sono andato ad abitare con la mia giovane moglie Enrica, in via Monti di Creta, dove poi sono nati i nostri due figli, Paolo e Giorgio.
Ad eccezione dei diciotto mesi di servizio militare, ho trascorso infanzia, adolescenza e giovinezza in quella strada, che ho sempre considerato un paese.
Perché un paese?
La mia impressione era avvalorata dal fatto che tutti si conoscevano e di tutti si parlava a proposito o a sproposito. La presenza di molti negozi, il vicino mercato Trionfale, la parrocchia di San Giuseppe, a circa 100 metri, inducevano gli abitanti a non allontanarsi troppo dalla via.
Quali negozi? Ricordo – siamo nell'immediato dopoguerra – la latteria, la tabaccheria con bar, gli alimentari, il carbonaio, la drogheria, la macelleria, la frutteria e, dietro l'angolo, il forno, il barbiere e il noleggio delle biciclette. C'era anche la mitica fontanella assolutamente utile per noi che avevamo l'acqua corrente solo dai cassoni e che a volte finiva all'improvviso.
Chi erano gli abitanti? Intanto cito le tre famiglie numerose: la mia con otto figli, i Landi e i Pisaneschi con nove ciascuna. Individualmente ricordo: la duchessa – non era una nobile ma noi la chiamavamo così perché quando attraversava la strada assumeva un atteggiamento altezzoso, quasi sprezzante nei confronti del vicinato; il macellaio, uomo forte e chiacchierato perché se la intendeva con la moglie del sarto… bah; due sorelle zitelle dalle gambe improbabili, cui il buon dio aveva risparmiato ogni beltà, oltre tutto tacciate di portare jella, per cui il loro passaggio induceva ogni sorta di scongiuri in noi ragazzi; una matrona romana che dal balconcino di casa sua al quinto piano strillava i più turpi insulti verso i tre figli in strada e contro chi stava loro vicino; il droghiere che con la moglie e due figli gestiva il negozio di alimentari, impenitente donnaiolo cui piaceva provarci con tutte le clienti, giovani o anziane, belle o brutte.
Nel mio palazzo abitava una famiglia che sosteneva di discendere da una nobilissima casata, e all'uopo aveva messo sulla porta d'ingresso una targa con tanto di stemma.
Merita una citazione speciale Pina, la lavandaia: alla Liberazione venne rapata a zero perché accusata di frequenza assidua coi fascisti; d'altro canto, per mantenere i figli, oltre a lavare i panni nelle case del vicinato – non esistevano ancora le lavatrici – svolgeva, come si dice, la professione più vecchia del mondo; ma non con noi della via: ci allontanava a colpi di scopa! Trascuro l'aspetto fisico perché era assolutamente poco attraente.
In fondo alla strada, dalla parte di via della Giuliana, in due complessi uno di fronte all'altro, abitava l'élite, rappresentata da giudici, medici, professori, che mai partecipò alla vita della strada; nemmeno i più giovani si integrarono con gli altri e noi pure li snobbavamo, almeno per i primi anni; poi, piano piano, riuscii a fare amicizia con quelli lì della mia età. E con alcuni di loro iniziai ad andare allo stadio e a giocare a tennis.
E di noi ragazzi, che dire? I più grandi incominciavano ad allontanarsi chi per motivi di lavoro e chi per studio. Rimanevano i quattordici-quindicenni che si industriavano a giocare per la via. Le ragazzine a campana, ai mimi, battimuro... I maschietti a nizza, schiaffo del soldato, uno monta la luna, palletta... Ricordo, dell'altro sesso, Marisa, sorella di Orlando che lavorava nella latteria, verso la quale ho tentato approcci, inutilmente; le tre sorelle Di Pietro; le sorelle Fusco – la più piccola, Priscilla, si fidanzerà con Franchino di via Premuda, fratello di quella Enrica che poi diventerà mia moglie; le sorelle Landi; le sorelle Pisaneschi, con la più piccola, Teresa, che mi faceva gli occhi dolci…
Noi maschietti eravamo divisi fra studenti e lavoratori; tra i primi io, Tore, Giampaolo, detto Ghiggia, Marcello Ciappi, Elio... Tra i secondi Ivano Ferri, Lorenzo l'odontotecnico, Franco cacasotto, Carlo il cipolla, Napoleone, di cui non ho mai saputo il nome vero... Tutti però ci riunivamo la domenica per giocare a palletta fra noi o contro altre vie, soprattutto contro via Premuda, la parallela più vicina: un vero derby! Gli incontri si svolgevano davanti alla chiesa di Santa Giovanna Antida in circonvallazione Clodia. I nostri avversari avevano in Capacci – diventerà giocatore della Roma in serie A, non troppo titolare, e poi giornalista televisivo – il loro asso; quando giocava lui spesso soccombevamo, e qualche volta finiva pure a botte nella fornace in fondo alla strada, dove adesso c'è il mercato dei fiori.
Nella parrocchia alcuni di noi entrarono a far parte della squadra Vigor, e finalmente calciammo un vero pallone di cuoio; partecipammo al torneo Beretta sul campo del Trionfalminerva, ma la nostra esperienza semi-importante finì lì.
Peraltro la parrocchia ci diede la possibilità di imparare il ping-pong e partecipare a tornei interparrocchiali: io e Giampaolo ne vincemmo uno a testa.
Poi iniziarono i primi balli nelle case più accoglienti e di conseguenza i primi filarini e piano piano la vita in via Cunfida come luogo di aggregazione cessò.
A distanza di tanti anni ne sento nostalgia, forse perché non ho più sedici anni. Chissà!
luglio 2010
16 marzo 2019
IL NOME SULLA MAGLIA
Oggi pomeriggio la Roma giocherà a Ferrara contro la Spal e tutti i giallorossi indosseranno una maglietta speciale su cui, oltre al numero e al nome del giocatore, al simbolo della squadra e allo sponsor, ci sarà scritto Giuliano.
Giuliano Taccola morì oggi cinquant'anni fa, durante la trasferta contro il Cagliari.
Era un bel centravanti, promettentissimo. Proprio a Ferrara aveva segnato alla Spal un gran gol, per esempio, e uno importante ne aveva fatto segnare a Capello, quando un giovane e impettito Fabio era della Roma, contro la Juventus a Torino e vincemmo. I tifosi aspettarono la squadra all'aeroporto di Fiumicino per festeggiare in città Capello e Taccola, tanto era inusuale battere la Juve a casa sua pure allora. Poi, quando nell'estate del '69 il presidente Marchini (strano incrocio di capitalista e comunista, che aveva donato al PCI il Bottegone perché fosse la sua sede nazionale) vendette proprio alla Juventus i gioielli Capello e Spinosi, i tifosi scesero in piazza con animo un po' diverso... Ma questa è un'altra storia.
Giuliano Taccola morì a 25 anni, lasciando una moglie, Marzia, e due bimbi. Lei si è sempre battuta per scoprire cosa uccise davvero il suo bel Giuliano. Oggi la Roma prova a darle un sostegno concreto con le maglie speciali, che andranno all'asta e il ricavato sarà per la signora Marzia ormai anziana.
E moriva Taccola lasciando i compagni e i tifosi sgomenti e tristi.
Tra questi ultimi mio padre Vinicio.
Questo è un suo raccontino di settembre 2012 che tocca l'argomento, e io voglio condividerlo con voi.
TACCOLA
Il direttore generale dell'INAPLI, ente presso cui prestavo servizio come responsabile dell'Ufficio del Personale, mi incaricò di recarmi in Sardegna per verificare se nei nostri Centri di Addestramento erano state rispettate le norme contenute nella Legge 230 del 1962. All'epoca avevo fatto uno studio approfondito sull'applicabilità delle disposizioni stabilite nella suddetta legge e sul Decreto Ministeriale esplicativo. In pratica veniva imposta l'assunzione a tempo indeterminato del personale docente in caso di reiterate chiamate in servizio con interruzione inferiore a tre o sei mesi a seconda delle ore settimanali di insegnamento affidate.
Lavoro! Buono, contrattulizzato, retribuito il giusto. Giusto cose dell'altro secolo, no?
Era il mese di marzo del 1969 e si era sparsa la notizia che gli enti preposti all'addestramento professionale sarebbero stati sciolti e le relative competenze trasferite alle istituende Regioni (accadrà l'anno dopo, col primo voto per i Consigli Regionali). Da ciò l'importanza delle verifiche richiestemi, e non solo in Sardegna.
Presi gli opportuni accordi con il Capo dell'Ispettorato Regionale, mi imbarcai a Civitavecchia la sera del sabato precedente il giorno del primo incontro, e giunsi a Cagliari giusto in tempo per un evento che, a prescindere dalla missione, mi interessava molto. Domenica 16 marzo giocava infatti, contro la forte squadra locale, la mia Roma!
Trovato il biglietto mi assisi proprio dietro alla panchina dei miei colori del cuore. Che emozione vedere la Roma di Ginulfi, Santarini, Peirò e un certo Fabio Capello, giocare alla pari con il Cagliari del grande Gigi Riva, e dei nazionali Albertosi, Cera e Boninsegna e di Nenè, che l'anno prossimo vincerà lo scudetto! Ma non capivo perché Helenio Herrera, il "Mago" che anni addietro aveva fatto trionfare l'Inter in ogni trofeo e ora allenava la Roma, non facesse scendere in campo il bomber Taccola che malinconicamente sedeva là in panchina; anzi, prima della fine dell'incontro il giocatore si alzò e andò negli spogliatoi.
La partita finì 1 a 1 con nostra soddisfazione, ma… se in campo c'era Taccola!
Tornato in albergo seppi che un giocatore della Roma era stato ricoverato urgentemente in ospedale, giungendovi però già morto...
Era lui! Giuliano Taccola, a soli 25 anni.
Rimasi sconvolto, e quella sera vagai per la città senza meta, da solo, e, udite udite, senza cenare!
Negli anni a seguire, a lungo si è indagato sulle cause di quella morte tanto prematura, ma niente di certo è venuto mai alla luce.
Dall’indomani con il Capo dell'Ispettorato girai nei nostri centri di Cagliari, Carbonia, Oristano, Sassari, Villanuova Monteleone, Tempio Pausania e Nuoro, ovviamente in più giorni di una trasferta lunga e articolata. Dovetti fare diversi rilievi che vennero accolti, per cui risolti i casi anomali tornai a Roma, in aereo stavolta, soddisfatto del buon lavoro svolto, ma davvero triste per la morte del giovane centravanti giallorosso.
Pensate che all'epoca, riprendendolo dal titolo di un film western-spaghetti, avevamo fatto circolare questo piccolo sfottò: Ghio (centravanti della Lazio) perdona, Taccola no!
A Fiumicino vennero a prendermi con la macchina mio cognato Augusto, mia moglie Enrica e mio figlio Paolo, 5 anni da poco, al quale narrai con dovizia di particolari quanto successomi. Che, come vedete, ricordo ancora.
19 marzo 2019
Mio padre, che racconta di essere diventato padre.
PIEZZ' E CORE
Sono padre di due meravigliosi figli che nel tempo mi hanno completamente modificato, in meglio certamente, il carattere.
La nascita del primo, avvenuta ventisei mesi dopo il matrimonio, è stata portatrice di sensazioni diverse: gioie enormi e preoccupazioni altrettanto grandi. Da giovane scapestrato sono divenuto improvvisamente (ma si è mai preparati?) un responsabile capo famiglia.
Però andiamo con ordine.
Già di per sé la gravidanza di mia moglie ha suscitato in me uno stato di tensione forse maggiore che per Enrica stessa. Lei, benché giovane, sentiva sì la responsabilità dell'evento ma forse anche, perché donna, l'assolvimento di un preciso richiamo della natura. E ciò la rendeva oltremodo felice.
Io ero contento, ma sempre teso: nei rapporti intimi pensavo di poter far male al nascituro; nell'attività quotidiana mi proccupavo che la mia giovane metà si sforzasse più del dovuto, e probabilmente esageravo troppo nelle osservazioni (rompevo, diciamo il vero); dal punto di vista economico continuavo a far conti affinchè quadrassero con le necessità familiari... Fondamentalmente ero felice di quel che tra pochi mesi sarebbe successo, però ripeto impreparato (nonostante i consigli di mia madre; papà l'avevo perso già da sette anni).
...Ma perché non esiste una scuola per futuri padri?
Al momento del parto, avvenuto dopo alcuni giorni di ritardo, subii un trauma vedendo la sofferenza di mia moglie per le doglie. Finalmente è nato!!! Era un fagottino di quasi tre chili, pieno di capelli (ora è quasi pelato) e con due splendidi occhi aperti come a voler già conoscere il mondo che lo circondava. Mi sembrava un miracolo vedere mia moglie stanca ma sorridente col pupattolo in braccio.
Lo abbiamo chiamato Paolo, perchè io da piccolo, giocando con mio fratello ai soldatini, davo nomi di fantasia ai nostri eroi: Paolo Manenti e Giorgio Gorilli.
Il nostro secondogenito infatti si chiama Giorgio, ma anche in onore della clinica dove è nato: la San Giorgio.
E sicuramente la sua nascita è stata per me meno traumatica, anche perchè in quei giorni ero presidente di un seggio elettorale e quando la sera giunsi in clinica i giochi erano quasi fatti. Biondo (era) e, non perchè mio figlio, molto bello e dolce (così è ancora).
Mia moglie inoltre mi dava sicurezza, per cui mi sentivo maggiormente sereno.
I due giovani sono molto diversi: il primo di carattere esuberante, sempre voglioso di approfondire ciò che lo circonda, forse troppo intraprendente; il secondo più riflessivo, metodico, più studioso e sicuramente amante delle cose tranquille. Nel tempo, nonostante sette anni di differenza, hanno acquisito notevoli affinità.
Entrambi tendono all'affermazione della giustizia in favore degli oppressi, auspicano libertà e uguaglianza. Paolo forse più impegnato politicamente, ma entrambi pronti ad intervenire per i più deboli. Non sono condizionati dal dio denaro e non perseguono potentati.
Amano lo sport attivo (non come me, mero spettatore), girano in bici recandosi anche all'estero; giocano a pallone, corrono e fanno ginnastica, impegnando in ciò anche le mogli. Tutti e due amano la musica e prima l'uno e poi l'altro hanno fatto parte di gruppi musicali: Giorgio ha partecipato a manifestazioni musicali a carattere nazionale e, benché insegni materie letterarie (è professore in scuola pubblica), nel 'tempo prolungato' insegna musica e canto ai suoi allievi, con successo e (è evidente) benefici effetti sulle nuove generazioni che va formando.
E pensare che è autodidatta!
Paolo, dal canto suo, con amici artisti organizza spesso una 'festa dei racconti' per attori e affabulatori. Enrica e io sosteniamo e partecipiamo alle attività di entrambi.
Anche il grande è pubblico dipendente, funzionario coscienzioso.
Tutti e due sono stati buoni studenti e si sono laureati con ottima votazione.
Sono sposati e per ora non hanno figli. Chi vivrà vedrà.
Che dire di più... Che sono felice, e dopo quasi cinquant'anni di matrimonio posso affermare che mi sento appagato della vita, grazie a loro e a una moglie meravigliosa.
Unico piccolo rammarico è che, avendo acquisito tanta esperienza, ora non posso tornare, se non con la memoria, ai momenti irripetibili della nascita dei miei due 'piezz' e core'.
agosto 2010
30 marzo 2019
L’ANNO PIU’ FICO DELLA MIA VITA
un raccontino “alla papà”
In pillole, d’accordo. Però con ordine.
Compio 19 anni in graziadiddio. Sono bello e sano e forte e felice (la somma dei quattro addendi) come mai fui prima, non sono più stato né sarò ancora. Intelligente, colto e buono forse invece sì, più dopo che allora; ma trattasi di tre concetti talmente sfumati e opinabili che non mi ci giocherei la testa. Invece che sei bello e sano lo vedi, che sei forte e felice lo senti; e quelle quattro cose insieme, per un totale alto come a 19 anni, furono e resteranno un unicum della mia vita.
Voglio bene a tutti e tutti mi vogliono bene. Nel senso concreto che ci sono ancora, tutti.
Ci sono mio padre Vinicio e mia madre Enrica; mio padre 49 anni, un giovanotto rispetto a me adesso, e mia madre che ne farà 44 solo nell’ultimo quadrimestre dell’annata, e perciò è ancor più giovane della mia pur giovane moglie Valentina, ora. C’è mio fratello Giorgio che va per i suoi stupendi 12 anni, è bellissimo buonissimo bravissimo, e già suona (quasi meglio di me). Ci sono tutte e due le nonne, Licia e Iolanda. Ci sono tutti i fratelli e le sorelle di papà e tutte le sorelle e il fratello di mamma. Ci sono tutti i miei cugini e le mie cugine. E ci sono quasi tutti gli zii acquisiti; quasi: zio Guido e zia Maria, marito e moglie rispettivamente di zia Adriana e zio Werther, lato papà entrambi, non ci sono più, il primo da quattro e la seconda addirittura da dodici anni. Lei morì prima ancora di nonno Arnaldo, che non c’è dal 1977; l’altro nonno, Michele, non l’ho mai conosciuto di persona: morì che papà aveva 22 anni.
E ci sono tutte le mie amiche e quasi tutti i miei amici: Riccardo, con cui ho fatto i primi due anni di liceo, già non c’è più.
Dunque nel mio animo l’assenza è assolutamente minoritaria rispetto alla presenza e vita. E questo conta assai, ora lo so.
Sono fidanzato con Alessandra, da tre anni. Stiamo bene insieme, benissimo. Pure le nostre famiglie si frequentano con piacere; e abbiamo mescolato anche le rispettive comitive iniziali. Voglio solo lei, pure fisicamente.
La Roma vince lo scudetto, il suo secondo scudetto. Ma per me è il primo, visto che quello del 41/42 io l’ho sentito soltanto raccontare; e perfino per mio padre è un ricordo sfumato: aveva solo 8 anni, e poi c’era la guerra.
Però questo scudetto qui me lo vivo tutto. Compresa la corsa in decine di migliaia all’aeroporto di Ciampino per prendere la squadra neo-campione di ritorno da Genova (“Falcao ti amo!” gli strillo in faccia), compreso il primo storico concerto di Venditti al Circo Massimo dopo l’ultima ininfluente partita di campionato. Viene giusto un anno dopo i Mondiali vinti dall’Italia, questo scudetto della Roma, ed è un uno-due che darebbe le vertigini a una montagna.
Ah, ho fatto la mia tradizionale settimana bianca con la scuola. All'Aprica, stavolta. Da studente dell'ultimo anno, con tutti gli altri sotto a noi seniores. E giocando pure a scopone con Ferrauto, lui. Io, praticamente un re.
Infatti mi diplomo, con un bel 58 nel liceo scientifico più tosto di Roma, e col miglior viatico nelle materie che mi piacciono di più: matematica, fisica, scienze, filosofia, storia, italiano. Sono stati cinque anni belli e importanti, e finiscono nel migliore dei modi. Alessandra è anche mia compagna di classe, e prende 58 pure lei: nessunissimo motivo di frizione, ho anche questa fortuna. E nessuna, ancora, delle delusioni che arriveranno con l’università (dopo un anno a Matematica, infruttuoso, dirotterò verso Scienze Politiche; e pure lì, ci metterò del tempo a finire – mentre Alessandra si laurea a pieni voti già quattro anni dopo di allora, e tempo altri due ci saremo lasciati).
La politica verrà dopo. La band ancora dopo. Un po' di volontariato dopo ancora. Il teatro ancora dopo. Il cicloturismo dopo. Mostre e pinacoteche dopo ancora. Le seduzioni, le dipendenze, tutto dopo. I viaggi, le città d'arte, perfino la Grecia, solo dopo. Scrivere come respirare, dopo.
Nonostante ciò, o forse proprio per ciò, tutto è così im-mediatamente fico.
Leggo tanto, specie nel secondo semestre per ovvi motivi. Eco e ancora Nietzsche, i Principia di Russell, il Tao Te Ching, Oscar Wilde e le Operette Morali, molta storiografia, qualche giallo, tanti fumetti...
Il mio amico del cuore Massimiliano c’è, c’è dalla prima media addirittura, anche lui stessa classe pure al liceo, e stiamo insieme tanto e bene. Insieme sentiamo i Police, li seguiamo dal loro primo disco, concerti compresi, mentre io da solo sento i Genesis di una decina di anni prima. Infatti quando suono, cioè provo a strimpellare la chitarra e pestare la tastiera, e diciamo così compongo, mi ispiro al progressive rock che resterà sempre una delle mie zone musicali preferite (e di mio fratello, e dei cugini suoi coetanei, che ammetto di aver plagiato un po’: per loro fortuna). Un’altra è la musica classica, che divoro e memorizzo (da solo, e senza plagio).
La musica che diciamo così comporrò poi, e anche adesso, è figlia proprio di queste tre cose: il prog (e il suo corrispettivo – stiracchiando – nella cultura afroamericana: il jazz, che mi occuperà letteralmente i decenni successivi), la classica, e il non saper suonare che indecentemente (infatti userò poi, e uso, i programmi elettronici al computer).
Gioco tanto a pallone, a calcio a 11 ancora, e già al calcetto che muove i primi passi su campi da tennis dismessi. Sono bravo, pare, e mi diverto tantissimo a giocare e ad essere bravo. Tutti i miei amici del pallone di allora sono ancora i miei amici di oggi. Così come tutti i miei amici della musica di allora, ascoltata o suonata insieme, sono ancora i miei amici di oggi.
(Quell’anno, pensavo ora, non mi capita mai di incontrare Roberta, la mia fidanzata della fine degli Anni ’70, compagna per tutti gli Anni ’90, amica-sorella per sempre; ma per fortuna ci rivedremo e torneremo a frequentarci nella seconda metà degli Anni ’80.)
Ne ho persi, amici, dopo: morti da giovani uomini. Due in particolare, cui volevo tanto bene e che ammiravo tanto, Volfango e Alessandro. Non ci suonavo né ci giocavo a pallone, cionondimeno mi mancano. Fu ingiustissimo per loro.
Butto giù i miei primi aforismi, le mie prime poesiole, i primi miniracconti, primi elzeviri, microsaggetti, e non sospetto neppure quanto poi mi sembreranno inadeguati, giacché lo sono; infatti mi gonfio il petto di creatività e divulgazione.
Vado già tanto al cinema. Escono: l’ultimo della saga di Guerre Stellari, il Ritorno dello Jedi (quello che credevamo fosse l’ultimo), Flashdance, Zelig, Il Grande Freddo, Una Poltrona per Due, Acqua e Sapone… e comincia la serie infinita di Vacanze di Natale e Sapore di Mare, che per fortuna non vedrò mai. Così come in TV non vedrò mai Drive In, Ok il Prezzo è Giusto, Premiatissima, il Costanzo Show, Aboccaperta e Dinasty, che fanno furore (non li vedo né li vedrò in futuro perché sono sano e forte, dicevo, e intelligente e colto). Là si prepara l’Italia che verrà.
Pasolini l'hanno ammazzato da otto anni, il caso Moro si è consumato da cinque, ma sembrano passati decenni. Questo è un pensiero di adesso, ovviamente; io allora non mi rendo conto di una quantità di cose.
Solo, detesto pariolini e paninari; ma è una cosa antropologica, pre-politica.
Ah, ho votato; per la prima volta in vita mia: altro motivo di un anno speciale. Radicale, preferenza Toni Negri. Ma da lì in avanti solo PCI e derivati.
Sono di sinistra, ma non ancora comunista. Quindi non vivo ancora quella frustrazione ineluttabile quando il tuo obiettivo politico è, da comunista-umanista, la palingenetica trasformazione dell’Umanità, ma ciò che vedi e che sai che vedrai per sempre è il Mondo così com’è.
Amo gli animali, ma non sono ancora vegetariano per motivi etici. Quindi non mi tocca ancora quel dolore insanabile quando la tua sensibilità, da animalista e gattaro, è tale da farti avvertire la sofferenza fisica e morale di tutti gli altri senzienti che la Specie Umana schiavizza, tortura e uccide.
…Quando dico, come all’inizio, che allora sono felice come forse mai prima o dopo, molto dipende – credo ora – dai due punti appena esposti.
E succedeva questo: Thriller sbanca tutte le classifiche, Borg si ritira, la mafia ammazza Rocco Chinnici, il primo attentato contro gli USA in Medio Oriente, nascono gli zapatisti in Chiapas…
L’estate la passo in parte a Rodi Garganico in un enorme campeggio. Con Alessandra, con Massimiliano, con mio padre, mia madre, Giorgio, tanti cugini e cugine, tanti zii, tanti amici. Ci divertiamo moltissimo, giochiamo a qualsiasi cosa, vinciamo qualunque cosa; nel paese ci amano e ci odiano insieme.
Il vialetto dei nostri bungalow viene ribattezzato Viale delle Vittorie.
Per i cattolici è pure l’Anno Santo, benché non ordinario.
Novembre, entro alla Sapienza coi migliori auspici.
A Natale cenone in casa, e poi si pensa solo alla festona di fine anno con tutti quanti.
Era il 1983. E’ stato il 1983. Fu il 1983.
L’anno più fico della mia vita.
Ma, ripensandoci bene, mica di tanto più fico rispetto ad altri venuti prima e dopo.
E’ che sono fortunato; lo dico sempre, e poi lo confermano tutti..
31 marzo 2019
TERENZIO MAMIANI
Filosofo, scrittore, uomo politico, cugino di Leopardi, ha dato il nome a uno dei più prestigiosi istituti scolastici pubblici di Roma. Nel quale ho trascorso sette anni della mia giovinezza, dalla seconda media al terzo liceo classico.
Preciso che all'epoca la scuola media (ora intitolata a G.G. Belli) era incorporata nell'edificio ginnasio-liceo Mamiani. Tutte le classi dei tre anni delle medie si trovavano al piano terra, quelle dei due del ginnasio al primo piano e il triennio del liceo era tutto al secondo. Rilevante per noi studenti la circostanza che, ottenuta la licenza media, salivamo una rampa di scale, con molto batticuore – perché fino ad allora interdetta – per giungere al ginnasio e poi, superato l'esame di Stato, finalmente si raggiungeva il secondo e ambìto piano: eravamo liceali!
Quando ho iniziato il quarto ginnasio, mio fratello Bruno, al piano di sopra, si diplomava.
A proposito, degli otto fratelli Andreozzi ben sette hanno frequentato il Mamiani: Werther, Bruno, Vinicio, Fulvio e Claudio lì si sono diplomati, Adriana e Liliana si sono fermate al ginnasio; solo Renata ha seguito un altro indirizzo. Aggiungo che, decenni dopo, ha frequentato il Mamiani pure il figlio di Bruno, Manrico.
Come è naturale, mia madre Licia era di casa nell'Istituto: segreteria e sala di conferimento con gli insegnanti erano il suo habitat (e te credo!).
Studenti del Mamiani che diverranno poi famosi ce ne sono stati molti, per esempio il giornalista e cronista sportivo Sandro Ciotti dalla voce inconfondibile o l'attore e doppiatore Paolo Ferrari o anche l'attore Sergio Fantoni, che ha fatto le tre classi del liceo con mio fratello Bruno; e come sanno tutti, anche il fisico di fama mondiale Emilio Segrè. Ma un paio di generazioni prima della mia.
Tra quelli che ho conosciuto personalmente, in classe ho avuto: Silvano Anania, magistrato, scrittore e viaggiatore solitario; Guido Barbiellini astrofisico e docente presso l'Università di Trieste; Luigi Dell'Aglio giornalista politico televisivo; Gianfranco Spadaccia presidente del Partito Radicale; Tullio de Felice assessore al Comune di Roma; Gialanella direttore dell'Osservatorio di Roma; Carla Muscetta, figlia del professor Muscetta, cui succedette alla cattedra di Lettere all'Università di Roma. E in altre sezioni: Paolo Ciofi, intellettuale comunista e anche assessore al bilancio della Regione Lazio (nello stesso periodo in cui io dirigevo l'ufficio di segreteria dei Revisori dei Conti); Gaspare Barbiellini (fratello maggiore di Guido) noto scrittore; e, di qualche anno più piccolo, Paolo Bonacelli, attore cinematografico (ricorderete il personaggio di Leonardo nel film di Troisi e Benigni “Non ci resta che piangere”).
Dal quinto ginnasio la mia classe divenne mista (finalmente) e cominciarono i primi flirt; ricordo Franca Grandi (il primo amorino) e Marisa Regis – fuggita dall'Africa con madre inglese, due sorelle e un fratello – molto bella (era stata Miss Tripoli) e ricca: naturalmente tutti le sbavavano dietro.
Un fatto eclatante avvenne nel 1953, quando stava per terminare il mio ciclo scolastico. Il regista Luciano Emmer ottenne il permesso di girare alcune scene del suo film “Terza liceo” proprio al Mamiani, avendo scelto come attore principale il nostro compagno Ferdinando Cappabianca. Chiamò come comparse alcuni di noi, me compreso, facendoci girare per tre o quattro volte l'uscita a precipizio dalle aule l'ultimo giorno di scuola ed altre scene di massa.
A parte l'emozione del neofita, ho potuto conoscere Ilaria Occhini – attrice principale –, Giulia Rubini, Valeria Moriconi e altri. Mi piacque la faccenda, e infatti subito dopo il diploma mi iscrissi al collocamento dello spettacolo per poter girare altri film, ma questa è un'altra storia (che come immaginerete non produsse un granché, la patria cinematografia perse questa grande occasione! ...sto scherzando.)
Prima di concludere è giusto affermare che il Mamiani ha avuto ed ha professori all'altezza della notorietà della scuola, ed io e i miei fratelli, abbiamo avuto il meglio; per cui ora, a distanza di più di sessant'anni, desidero ringraziare l'intero corpo docente per ciò che mi ha insegnato.
Ora ho proprio finito. E mentre scrivo un groppo alla gola per l'emozione mi assale, ripensando a quei fantastici sette anni trascorsi al Mamiani.
aprile 2015
4 maggio 2019
ERA DI MAGGIO
Maggio è un mese un po' particolare. Un bel po', di risonanze.
È il mese della corsa in rosa, tanto per dirne una: del Giro d'Italia; che infatti quel giornalismo dalle regole tutte sue proprie, regole di poetica, di epica e di retorica che gli si perdonano volentieri per amore, cioè il giornalismo della bicicletta, chiamava a volte "la sposa di maggio".
È il mese delle spose, infatti, tra l'altro, sebbene pure del divorzio vittorioso al referendum; e delle rose, anche.
Il mese del "Piave mormorava calmo e placido", quel mese del 1915 in cui un'Italia contadina e proletaria viene gettata in guerra da un'altra Italia aristocratica e borghese; e però la canzone celeberrima fu scritta nel '18, dopo le controffensive sul Piave, appunto, che riscattavano Caporetto e porteranno dritti alla vittoria finale di Vittorio, appunto, Veneto. Canzone quindi che con un occhio piange, per l'inutile strage, ma l'altro ride perché "non passa lo straniero".
Maggio è così, contraddittorio: la primavera in piena esplosione e "verremo ancora alle vostre porte / e grideremo ancora più forte", e i mille papaveri rossi che comunque "fan veglia dall'ombra dei fossi".
Il maggio di Nerina, che "a radunanze, a feste / Tu non ti acconci più, tu più non movi... /...per te non torna primavera giammai, / non torna amore"; di Silvia, che "sedevi, assai contenta / di quel vago avvenir che in mente avevi... / ...e tu solevi / così menare il giorno". E "Non è di maggio questa impura aria / che il buio giardino straniero..."
È il maggio di Aldo Moro, ovviamente, e di Peppino Impastato, di Falcone a Capaci.
Di Karl Marx, nato domani due secoli fa. E sempre su domani, ovviamente, da due secoli è immobile l'"Ei fu".
Maggio è anche il 4 del 10 di Downing Street, la prima volta di Thatcher quarant'anni fa esatti.
Ed è Superga, sempre oggi, maledetto 4, settant'anni fa, quando morì il Grande Torino e ne nacque immortale un amore da parte di tutta l'Italia di qualunque bandiera.
Mio padre, romanista infatti, eppure innamorato a vita di quell'undici scolpito nella leggenda: BacigalupoBallarinMaroso... Mio padre che detestava la Lady di Ferro appena meno di quanto detestasse Reagan! Che stimava Moro, come tutti i comunisti per bene; e come tutti si commuove per "I cento passi", ogni volta, specie ai pugni chiusi finali. Che ci insegna gli effetti e l'onore della legalità, ce li mostra. Mio padre che visse bambino un poco a Vittorio Veneto, scampando da altri orrori di una seconda guerra carnefice finita poi di maggio, l'8, del '45. Mio padre che mangia pane e ciclismo, col Giro d'Italia a fette prelibate e Coppi in cima. Mio padre e i suoi Manzoni e Leopardi, faccia a faccia col nostro De André; il suo Gramsci, col nostro Pasolini. E viceversa.
Mio padre che non c'è più. Da un giorno di maggio, maledetto 31.
Ed è il primo maggio, questo, che manca.
Mancherà all'appuntamento con la corsa in rosa, e manca oggi a ricordarmi come ogni anno del suo/non-suo immenso Toro.
Manca tanto a tutti: a mia madre per prima, a mio fratello così come a me, ai nostri amori; e ai suoi fratelli rimasti, cognati, nipoti, amici. A tutti e tutte.
Maggio delle rose, maggio delle mamme. Mia madre, sposa di dicembre, però, e poi tutta la vita, mette sempre una rosa fresca dirimpetto a mio padre, cioè all'urna gradevole in legno chiaro a guisa di librone che ne contiene le ceneri tra gli altri suoi tanti libri.
Mia madre: amore e coraggio.
Domani andrò a dirle che maggio è tornato.
E che tanto di lui non se n'è andato via, né mai se ne andrà.
"Si 'stu sciore torna a maggio / pur'a maggio io stonco ccà", gliela cantava con mio fratello al pianoforte; e per niente male, devo dire.
18 maggio 2019
DODICI
E con questo tanti sono i raccontini di nostro padre Vinicio, che ho ripubblicato in questi dodici mesi da che lui non c’è più.
Sono tratti dalla sua raccolta "Diario di Ricordi", che ne conta sessantacinque, che papà ha redatto tra il mese di luglio del 2010 e quello di agosto del 2017. Chissà perché cominciò, proprio allora… Comunque a lui piaceva scriverli, a noi leggerli – mamma per prima, addirittura in bozza, in progress, e infatti era lei la sua prima consigliera, diciamo la curatrice, l’editor –, e quindi la mia proposta di metterli sul web, offrendoli a chiunque avesse voglia di spenderci cinque minuti, Vinicio l’accolse volentieri, con piacere, e modestia e autoironia.
Sono stati e sono ancora abbastanza letti, in giro, devo dire, i suoi racconti. E, se sono sinceri i commenti che me ne arrivano, anche parecchio apprezzati. Mi fa e ci fa immensamente piacere, potrete immaginarlo!
Questo lo pubblico oggi, anniversario dell’ultimo giorno che trascorse con nostra madre nella loro casa tanto amata e curata, e ancor oggi bella, comunque dolce, grazie a lei, a Enrica.
Poi la sera stessa ci fu il ricovero d’urgenza, l’intervento salvavita, e dopo ancora qualche giorno di speranze.
Ma questo raccontino è divertente, proprio per questo l’ho scelto!
Alla fine, come addendum, una delle sue tante piccole poesie – alcune delle quali raccolte anch’esse nella paginetta web –, questa dedicata a sua madre, per noi nonna Licia.
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ZARA
Finalmente Zara!
Dopo un viaggio lungo e periglioso siamo giunti in questa località, provenienti da Kranjska Gora.
Avevamo deciso che, dopo il periodo di relax in montagna, ci spettava un soggiorno marino in un’isola, diciamo incontaminata. Non ricordo chi la propose ma tutti fummo concordi ad andare nell'isola di Dugi Otok di fronte a Zara, dove comincia l'arcipelago delle Kornati, e precisamente in località Luka.
Il viaggio per raggiungere il porto d'imbarco fu, come sopra detto, particolarmente difficoltoso: tanto per cominciare a Rijeka (Fiume) un violentissimo temporale ci colpì; ah, la carovana delle nostre macchine era composta da sei auto con sedici persone a bordo fra cui cinque bambini.
Poi: la strada costiera dalmata è tutta curve, il che impediva velocità, soprattutto a me perché mio figlio Giorgio, 4 anni, spesso, poverino, gridava “gomino” (traducibile in “vomito”), con immediata fermata e 'liberazione' da parte del piccolo.
Insomma, la durata del viaggio, stimata su carta in sei ore complessive, venne abbondantemente raddoppiata: giungemmo a Zara solo a sera, con necessità di cenare di corsa e trovare alla meno peggio un posto per passare la notte, e attendere la mattina dopo per il traghetto, visto che quello del pomeriggio ormai era perso.
Cena buona, almeno, e certi cantori locali ("Lontano, lontano") che sfidammo con le nostre ugole per nulla trascurabili! Tramite turistbureau (agenzia) trovammo una sobe (appartamento) tra poche opzioni disponibili, ma il disagio fu enorme: in due stanze e un vestibolo ci dovemmo accampare tutti… ma il pensiero della nostra isola lì dinanzi, da qualche parte, ci faceva sopportare tutto.
La mattina, lasciate in parcheggio le sei macchine (che a Luka non dovevamo trasbordare: là non serviva un automezzo), carichi di valigie e trascinando bambini assonnati, ci avviammo al porto; lungo il canale salutammo festanti un battello che usciva, ma raggiunto il molo venimmo a sapere che quel natante visto e accomiatato era proprio lui: quello che doveva portarci all'isola!
E scoprimmo, pure, che fino all'indomani non c'erano altri traghetti di linea!
Disperazione e accuse reciproche per il ritardo e le sviste madornali…
Niente, si trattava di questo: noi facevamo conto sull'ora legale italiana, ma che in Jugoslavia non c'era!!!
Che fare? Riuscimmo a reperire un barcone privato che ci avrebbe portato a Luka, ma solo di sera. Riempimmo il giorno, in qualche modo, sempre più stanchi. E alla fine si salpò: traversata fra scogli e quasi al buio con necessità di coadiuvare il pilota nel dirigere il battello, non vi dico!
Arrivati all'attracco scendemmo e… non trovammo nessuno, dell’albergo o altro! C’era appena un carretto buttato da una parte, lì sopra mettemmo valigie e bambini, quindi risalimmo il sentiero verso l’hotel. Anzi, gli hotel(s).
Subito un'altra discussione: perché due alberghi diversi? E chi doveva andare di qua, o di là? Con nostra meraviglia, rispetto alle apparenze modificate dall’ora notturna, però solo un piccolissimo cortile divideva i due edifici. Sorrisi: meno male!
Sistematici nelle stanze, eravamo a dir poco bolliti; ma sempre impazienti di vedere al mattino l'isola bella del nostro soggiorno marino.
Sorpresa: l'indomani scoprimmo che non esisteva alcun paese e che, oltre agli alberghi, non c'era che uno spaccio di provviste elementari, più qualche casa di pescatori.
Inoltre, la spiaggia si trovava oltre una collina da cui in lontananza si poteva vedere, col binocolo, un campo di nudisti; al che le nostre mogli requisirono i cannocchiali e impedirono passeggiate separate.
A proposito, nelle stesse strutture villeggiavano alcune ragazze toscane carine e un po' ...spregiudicate. Ciò ci farà vivere un’avventura piuttosto movimentata.
Una sera le toscanine succintamente vestite rientravano seguite da un gruppo di pescatori ubriachi, che volevano a tutti i costi accompagnarle su in camera, evidentemente contro il loro volere. Noi tutti ci trovavamo al pianoterra a giocare a carte, e assistevamo al trambusto… immediatamente le nostre mogli corsero al piano superiore, a difesa dei figli piccoli, già nel sonno: Fulvio, mio fratello minore, si mise in cima alle scale, come ultimo baluardo a presidio delle stanze nostre e delle ragazze; Bruno, mio fratello maggiore, e gli amici Paolo e Franco fecero scudo in fondo allo scalone, e io e Werther (il più grande) a ridosso del muro, pronti… come rincalzo. Le cronache del posto raccontarono di urla, spintoni, qualche cartilagine rotta ma… italiani vittoriosi!
…Invero, i pescatori se ne andarono senza troppo strepito, e noi invitammo soltanto le toscane ad uscire un po' più coperte in futuro.
Il periodo di vacanza trascorse bene, comunque: il mare era davvero speciale, alcuni impararono a nuotare proprio lì perché l'acqua era subito profonda!
Tornati a Zara, io e la mia famiglia decidemmo di traghettare da soli per Ancona. Traversata bellissima, a parte che Enrica, Paolo e Giorgio "gominarono" tutto il tempo.
Per i prossimi viaggi sicuramente cercheremo località più conosciute, meno isolate e sorprendenti magari, anche se dovessero essere affollate!
agosto 2010
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Per la festa di mia madre
24 ottobre 1977
Mamma volevo farti una poesia
ma poca cosa è la parola mia
rispetto a quello che dentro sento.
Ora ricordo ed è un momento
quando tanti anni fa
col capo chino
presso il corpo di Papà
e tutti noi vicino,
mi sembrasti più grande e più forte
e lontano lontano dalla morte.
Ti voglio bene per ciò che sei
e che sei stata per me e per i miei.
Per avermi fatto uomo corretto
e con un po' d'intelletto
Per avermi aiutato
e per avermi curato.
Grazie ancora di cuore
e tanti auguri con amore.
31 maggio 2019
CANDELE NEL VENTO
È un anno oggi.
Elton John non c'entra molto. Tanto meno Marilyn Monroe, né LadyD. La musica e il cinema sì: quanto ce ne hai fatto conoscere, di entrambi!
...Però Elton ti piaceva (non quanto Marylin, ovviamente: per lei ululavi! ...E chi no? "Che dea!"), ti piaceva abbastanza da quando anche il grande pubblico della RAI-TV poteva dire di conoscerlo per aver visto in prime time il suo storico concerto a Mosca (o era... Leningrado?) mi pare del '79. Ti divertì, mi ricordo, specie la performance di Ray Cooper, quel pazzo di percussionista che suonava con John; tanto che dopo, se capitava che anche tu giocassi ai miei, e di Giorgio e cugini, sempiterni lambicchi da nerd musicofagi del tipo "creiamo la super band di tutti i tempi", alla batteria ci mettevi Cooper (e alla voce i Platters, tutti insieme: sempre!).
Quindi eri uno spettatore e un consumatore medio; né hai mai voluto spacciarti per un esperto di chissà quale originalità in quei campi su cui, senza alcun imbarazzo, ammettevi di surfare per il puro gusto della fruizione rilassata, della curiosità (intelligente), dell'intrattenimento (quello che ci migliora per quanto possa, però).
E mi piacevi, mi piacerai sempre, anche per questo profilo leggero, perfetto contraltare alla tua solidità, e serietà, nei campi invece in cui ti sapevi preparato come pochi, il che ti è stato sempre riconosciuto.
(Magari tanta altra gente! E magari io stesso!)
Il più grande pianista classico del '900? Josè Iturbi! ...Perché aveva i suoi cameo nei grandi film di Hollywood degli Anni' 50, la tua giovinezza. Il più bel concerto per pianoforte? Il Concerto di Varsavia, di Addinsell! ...Perché faceva da leitmotiv a un filmone inglese sulla Seconda Guerra Mondiale. (Rachmaninov aveva declinato l'ingaggio! Ma in effetti il brano è molto bello.) E insieme a Mozart, Beethoven e Bach chi ci metteresti? Togli Bach, metti Chopin, e comunque Ciaikovskij! ...Per la meravigliosa sequenza in Fantasia di Walt Disney, lo vogliamo dire?
Lo Schiaccianoci... La domenica mattina, nel bagno della prima casa, su ai Monti di Creta, tu ti radevi allo specchio del lavandino, io ero immerso nella vasca bollente fino alle orecchie, mamma che entrava e usciva, tra badare a che io mi lavassi, anche, e di là a Giorgio davvero piccolo coi suoi bisognini... E c'erano due colonne sonore che si alternavano: prima un 33 giri che girava sul piatto con piccole casse che spostavi dal salotto e mettevi in bilico su un davanzale, apposta perché tu e io sentissimo meglio, disco che poteva essere quello con la suite dal balletto, appunto, quell'ouverture, quelle danze bellissime e strane, quel valzer ipnotico, oppure la Rapsodia in Blue, di Gershwin, la mia prima infarinatura di crossing over tra classica occidentale e jazz afroamericano, oppure le canzoni tradizionali romane interpretate dalla voce chiara e stentorea di Alvaro Amici; e poi la radio, la radio del popolo che eravamo senza superfetazioni, pasolinianamente (direi ora), "Gran Varietà", "Il Gambero", "Campo de' Fiori"...
E certo che mi lessavo, in quella vasca! Ci sarò stato ore ogni volta...
O sembravano ore allora, come succede; come abbiamo tutti sperimentato.
Hanno arato, quei momenti. E seminato, e fruttificato poi. Ne gusto ancora, adesso che proprio mi serve.
È un anno oggi che mio padre è morto.
Una cosa che, che non mi capacito. Eppure ecco.
Però, ecco, non mi ha essiccato. Non mi ha spento, non ha estinto la fiamma del mio stoppino; la candela che io sono è ancora accesa.
Questo volevo dire.
La morte di papà, così quasi improvvisa, ha staccato le nostre candele dalla base di cera colata lungo tutta una vita, la vita di una famiglia unita, serena, fortunata. Le ha recise da sotto, la candela che è nostra madre, la candela che è mio fratello e la mia, le ha fatte ondeggiare paurosamente. Traballano ancora, tanto.
...Ma non siamo caduti, papà. E non ci siamo spenti, non siamo al buio, non siamo freddi.
Ci teniamo su, ritti e luminosi, l'un l'altro appoggiandoci, piegando la fiamma al vento del dolore indicibile e rialzandola alla forza del grato ricordo, del lascito d'amore. E gli amori della nostra vita, parlo per me e per Giorgio, proteggono anch'esse il nostro durare affinché nuova cera coli alla base e saldi un patto nuovo con l’esistenza. E tutti gli altri affetti profondi che proteggono mamma, oltre noi.
E lei, nostra madre, che da sola ha il compito più difficile e superbamente lo svolge; sostiene lei tutti, sorretta da ciò che di te, di voi due insieme, avrà dentro per sempre.
Io non vorrei altro dal dopo-di-me, per chi amo.
Tu ce l'hai, l'hai ottenuto. Perché sei stato un uomo. L'hai meritato.
Sappilo.
Sì, c’ero. Là fuori.
Non hai sofferto. Deve essere così.
Ciao papà, Vinicio.
È qui con noi, tutti, sempre.
Anno primo.
appendice 1
appendice 1
11 giugno 2019
RITRATTO DELLO STORICO DA GIOVANE
Due inesattezze, però: qui parliamo di prima ancora della giovinezza, dell'infanzia proprio; e io tecnicamente non sono uno storico, di sicuro non di professione.
Ma passatemela, la 'joyceata'.
E niente, c'era questo disco, un 45 giri, a casa degli zii, zia Renata sorella di papà e zio Augusto suo marito, che abitavano al terzo piano dello stesso palazzo in via Monti di Creta in cui al primo abitavo io con papà e mamma, e Giorgio ma solo dal giugno 1971, e non avevano figli e io andavo spesso su da loro il pomeriggio, mamma aspettava sulla porta di casa nostra che io salissi le due rampe di scale, suonassi il campanello, mi aprissero, e io e zio o zia dicessimo all'unisono "arrivato!", al che lei da giù rispondeva "va bene, Paiuccio scendi prima delle otto che torna papà e ceniamo! grazie Augusto (o Renata)!" e rientrava chiudendo la porta, e allora io al terzo piano un po' giocavo a scopetta o briscola con zio, un po' leggevo su un bell'atlante geografico con zia, un po' raccontavo a zio delle mie fidanzate, un po' mi facevo insegnare da zia a disegnare Topolino e Paperino, e un po' mi facevo guidare da loro alle meraviglie di un bellissimo apparecchio radiofonico e giradischi che avevano nella sala grande, che in effetti usavano, usavamo direi visto che sentivo quella casa quasi casa mia, pochissimo, e alla radio ruotavo una grande manopola così che una linea rossa verticale si spostasse lateralmente toccando via via dei nomi di città straniere o esotiche addirittura che, raggiunti dalla linea, si illuminavano e ciò corrispondeva alla sintonizzazione su stazioni sempre diverse, rare, misteriose, e poi c'era il disco, sì da quello ero partito, un disco, 45 giri, che invece delle canzoni come tutti gli altri dischi, o della musica senza parole, o delle fiabe, come tanti che avevo giù al primo piano e che mettevo con mamma e papà o anche da solo, quel disco aveva la Storia dentro.
Io l'ho sentito e risentito un'infinità di volte, prima facciata e seconda facciata.
Dovevo avere cinque anni.
E poi le ho ritrovate oggi su YouTube, tutte e due.
Cinquant'anni dopo.
https://youtu.be/SKHu2nT_7QQ
https://youtu.be/e8hBGxS0Av4
E niente, dopo, finito il pomeriggio, riscendevo le due rampe dal terzo al primo piano, almeno una delle due me la facevo scivolando a cavalcioni sul mancorrente, che se mi avessero visto, genitori o zii, me le davano, suonavo il campanello di casa mia, mamma mi apriva, io e lei dicevamo all'unisono "arrivato!" e zio (o zia) rispondeva "va bene, ciao, buona serata" e rientrava chiudendo la porta, allora rincasavamo anche noi e di lì a poco sarebbe tornato papà.
appendice 2
28 giugno 2019
TANGO
Ieri sera ho segnato un gol di tacco. L’ultimo gol dell’ultima partitella dell’ultimo torneino della stagione 2018-19, finita appunto ieri. Vinta partita, vinto torneo, e mi sa pure la classifica cannonieri. Avvertenza importante: parliamo qui di livello men che amatoriale, quindi fate la giusta tara a tutti i vocaboli che ho usato e userò (stagione torneo partita classifica risultato gol gesto numero azione…).
Comunque non era neanche di tacco, semmai col piatto del piede d’appoggio, ma che è d’appoggio solo fino a un istante prima di toccare e dirigere il pallone…
Insomma si fa così: mettiamo che tu sia destro e ti porti avanti la palla verso la porta avversaria più che altro col destro, e quando sei quasi a tu per tu col portiere, che si aspetta che colpirai col destro verso la porta (col piede sinistro in appoggio a terra, quindi), invece fai passare il piede destro sopra il pallone e lo poggi a terra e da così, con le gambe cioè incrociate, tocchi il pallone col lato interno (il piatto) del sinistro e lo spingi verso la porta nella direzione opposta a quella che pensava il portiere. Gol!
Questo gesto non ha un nome, non credo almeno. Non è una rabona, né una ruleta, o una veronica, un elastico, un cucchiaio, un aurelio… Non ha un nome perché richiede condizioni di tale relax amatoriale, appunto, per essere pensato ed eseguito, e per riuscire, che nel calcio vero non lo fa nessuno e manco nel calciotto o calcetto un poco seri. E dunque nessuno, ritengo, l’ha codificato con un nome d’arte di quelli là.
Però era un colpo che vedevo eseguire sempre a lui, io piccolo lui grande, che lo faceva insieme ad altri numeri per mostrare al bambino ciò che si può tentare prendendo dimestichezza con la palla. Tipica sbruffoneria dolce di un papà che non è certo un campione a pallone, e sa di non esserlo né fa nulla per spacciarcisi, però vuol far divertire il figliolo che anche per quel minimo gioco di prestigio al campetto dei giardini si inorgoglirà del papone e pure, emulandolo, di se stesso.
Tipica sbruffoneria poi di fratello maggiore con fratello minore, e di cugino grande con cugino/i piccolo/i. Cose così, molto pre-calcistiche.
Come mettersi a palleggiare di pomeriggio inizio estate, da soli al campo del condominio, di piede, tutti e due i piedi, collo piede, interno piede, ginocchio, tutti e due, coscia, tutte e due, testa, spalla, tutte e due, tacco, e si ricomincia, e contare i palleggi e battere i tuoi record, prima che arrivino gli altri in numero minimo per la partitella iniziale della dozzina che si giocherà tutta in sequenza fino a sera, quando dopo i ragazzini rientrano a casa lordi, felici e disidratati. Gesti, azioni, numeri che a pallone vero non farai mai, ma che ti porti dentro come un attore credo faccia con gli scioglilingua imparati per esercizio alle sue primissime armi.
E insomma ieri sera ho fatto questo golletto, che mi sa che in una partita per quanto amichevole non provavo da alcuni decenni.
Mi parevo mio padre. Come se non gli somigliassi già abbastanza!
Non ce l’ha un nome, quel colpo da ballerino di tango…
Be’, adesso ce l’ha: ho segnato di vinicio!